giovedì 11 dicembre 2008
scribbles, noise and swearwords.
lunedì 8 dicembre 2008
Caffè
Uscii di casa di fretta e senza il mio caffè e quando mi voltai velocemente per controllare che la porta fosse ben chiusa, l'odore acre del caffè bruciato mi penetrò il naso.
Buongiorno!
Era tardi, non avevo tempo di fare la fila del mattino al bancone del bar, mi accontentai di una sigaretta a stomaco vuoto.
Nel momento in cui arrivò l'autobus la sigaretta mi cadde dalle dita e di riflesso feci uno scatto indietro. Il mio naso andò a finire esattamente nella nuvoletta di puzzo di caffè troppo caldo.
E' tardi.
Per tutto il giorno fu come se un altro me stesso fatto d'aria intrisa di odore di caffè bruciato stesse aggrappato alla mia schiena.
Ovunque fossi non ero mai solo.
Iniziai a cercare puzzadicaffè.
Seduto all'ultimo posto in fondo del pullman mi voltavo di scatto, affondando per qualche attimo le narici in quell'ombra tutta mia.
Una donna dalla faccia vecchia ma piena di trucco mi si sedette accanto e sistemandosi il cappotto spinse via la mia nuvola, rimpiazzandola col suo profumo banalissimo da campioncini gratuiti. Dovetti alzarmi e cercarmi un altro posto.
Eravamo io e puzzadicaffè, stavamo cercando di capire come comunicare e nessuno doveva disturbarci.
Si fece sera, ora di tornare a casa.
Aprii la porta e puzzadicaffè era ancora li, ancora ovunque. Iniziai a sentirmi oppresso, cominciavo a pensare che la mia compagnia non gli sarebbe mai bastata.
Eravamo stati insieme tutto il giorno, era stato bello, ma adesso avevo bisogno di starmene un pò per fatti miei e lui non lo capiva.
Litigai pesantemente con puzzadicaffè, forse esagerando un pò.
Ad ogni modo non lo incontrai più.
Sbagliando si impara,
e la prima volta che lasciai la moka per troppo tempo sul fuoco imparai a portare i capelli corti.
sabato 6 dicembre 2008
mercoledì 3 dicembre 2008
Crêpe
Le 12:00 erano passate da un pezzo quando si decise ad aprire gli occhi e scendere dal letto. Si infilò i pantaloni della tuta e si trascinò in cucina per preparasi qualcosa da mangiare. Frittata nel panino, una cosa veloce. Ci voleva la cipolla però. Frittata e cipolla nel panino.
Si buttò sul divano per masticare comoda. Alla tv alcune attrici con vita stretta e lingua lunga si contendevano un bel pezzo di cristiano.
Se ce ne fosse solo una che sapesse starsene al posto suo, avrebbe già vinto. Ma in tv si combatte ad armi pari.
Cambiò canale, quella roba non era per lei. I Simpson, adorava i Simpson.
Linda si era laureata in lettere e filosofia con ottimi voti e in tempo record, da ormai dieci anni. Dopo la laurea decise di starsene buona per un pò. Non aveva nessuna voglia di lavorare e sua madre non le aveva ancora fatto pressione, anzi, continuava a mandarle soldi ogni mese.
Viveva nell'appartamento che il padre le aveva lasciato in eredità. Ne aveva lasciato uno a lei e uno a suo fratello, nello stesso palazzo.
Lui era il suo esatto contrario. Pesava solo 70kg e dopo il diploma aveva subito iniziato a lavorare in un officina, come meccanico.
Ogni tanto si vedevano per cena e lui le faceva le solite storie per via dei chili di troppo e del fatto che non faceva assolutamente niente tutto il giorno, tutti i giorni.
Scrollò la canottiera sintetica bianca e le briciole del panino volarono sulle pantofole e sul tavolino sudicio, coperto da cartoni di pizza e buste di carta del McDonald's.
Basta McDonald's... avrebbe ordinato qualcosa al ristorante cinese per cena, ma ora ci voleva un sorso di coca. Si sporse il giusto, per afferrare la bottiglia aperta di Pepsi semi-sgasata e tracannò dalla bottiglia.
Era sveglia da meno di un'ora, ma prima ancora che la sigla finale chiudesse i Simpson, la testa le cadde all'indietro, sullo schienale del divano.
Da un pò di tempo sognava ogni volta che chiudeva occhio, anche per pochi minuti.
Questa volta era ben vestita, con i capelli appena acconciati, seduta ad un tavolo di un ristorante che doveva essere in centro, perchè dalla parete di vetro al suo fianco vedeva la gente passeggiare.
Seduto davanti a lei c'era Daniele, un suo ex compagno di corso.
Era proprio come in quella foto della festa di capodanno. Ai tempi dell'università ne era innamorata pazza ma aveva sempre fatto il possibile per non farglielo capire.
Ogni tanto le tornava in mente, insieme a una gran voglia di crêpes straripanti di nutella.
Mangiavano pesce e si guardavano negli occhi. Lei sarebbe dovuta essere terribilmente imbarazzata. Aveva immaginato più volte quella scena, facendo fuori pacchi interi di patatine gusto panna acida, e non era mai riuscita a farsi venire in mente un buon argomento di conversazione. Nel sogno però parlava e rideva con naturalezza. Aveva addirittura dimenticato che il vestito le stringeva all'altezza dei fianchi.
- Ricordi quel giorno in cui... -
- Si, certo! Ahahah! E' stato fastastico... -
Ora il ristorante non esisteva più ed eccoli in una stanza, forse di un albergo, comunque non sua. Lui le versava del vino in un calice di vetro mentre le sussurava qualcosa da molto vicino.
Finalmente la buttò sul letto ed iniziò a baciarla. Sentii le sue mani ovunque e iniziò ad ansimare. Stava per scoppiare a piangere, dovette trattenersi.
Si fece forza ed iniziò a sbottanargli la camicia. Ma lui la fermò immediatamente, allontanandole le mani.
-E' ora di mangiare qualcosa-
-Ma siamo appena usciti dal ristorante...- tentò di replicare, ancora ansimante
-Beh, ci vuole comunque un dolcetto-
Tirò fuori una grossa torta paradiso da qualche parte e gliene mise in bocca una fetta intera.
-Mmmmggghhhh-
-Su su, non fare storie-
Gliene spinse dentro un'altra fetta. Lei cercava di masticare e mandare giu, ma era troppa tutta in una volta e non ce la faceva.
Ancora un altro pezzo, poi cambiò dolce. Ora era un semifreddo giallastro. Ne prendeva grosse fette con le mani e gliele ficcava in bocca, sporcandole tutta la faccia.
-Dai, so che ce la fai- disse lui
-Mggggghhh- disse lei
Cercava di farsi venire in mente qualcosa per liberarsi da quella situazione, ma faceva fatica a muoversi già per conto suo, figurarsi con una persona a cavalcioni sulle sue gambe. L'ansia e la bocca piena le avevano dimezzato il respiro.
Lui continuava con i dolci. Bomboloni alla crema, crostate, ciambelle, torte al cioccolato, bignè, cannoli alla ricotta, spiengeva tutto dentro il buco di quella faccia grossa e sporca.
Lei soffiava e sputava quello che riusciva, masticava e ingoiava il resto.
Non ce la faccio più, sto per vomitare, sto per scoppiare.
Un conato di vomito impossibile da trattenere la svegliò di scatto.
In tv la pubblicità di una pedana vibrante per dimagrire senza sforzo.
Forse una le avrebbe fatto comodo.
Affiancata ad una corretta alimentazione, risultati sicuri.
Forse no.
Era sera, ormai. Agguantò il telefono per telefonare al ristorante cinese e compose meccanicamente il numero.
Testa e stomaco ancora scossi dall'incubo.
Incubo?
Beep... beep.
-Pronto?- al di la del filo.
-Daniele??-
lunedì 1 dicembre 2008
paleface
Lo studio del padre lo aveva sempre attratto. Forse era per via dell'odore di fumo vecchio e stantio o del grosso divano di legno rivestito di velluto, ma è li che andava per provare a pensare e quel giorno più che mai aveva bisogno di pensare.
Chiuse a chiave la porta e si buttò sulla poltrona dietro la scrivania. Aveva portato con se un paio di confezioni da sei bottiglie di birra e un pacchetto nuovo di sigarette. Aveva intenzione di stare li dentro a riflettere per un po’.
Nell’angolo della stanza opposto alla scrivania, su uno scaffale, c’era un grosso televisore che avrà avuto ormai venti anni. Doveva essere costato una fortuna, all’epoca. C’era anche un videoregistratore e sopra le mensole c’era la collezione di vhs western a cui il padre teneva tanto. Lo ricordava mentre scartabellava a sbuffava nuvole di fumo, mentre a basso volume i saloon venivano rasi al suolo.
C’era un film in particolare, che gli si era stampato bene in testa. Lo cercò in mezzo agli altri, tutti ricoperti di polvere, lo infilò nella fessura e riavvolse il nastro. Trovò il telecomando e tornò a sedersi alla sua scrivania.
PLAY. Titoli di testa, stava iniziando. L’accendino accese la sigaretta e poi stappò la prima bottiglia. Nuvola di fumo bianco.
Ciao, papà.
Abbassò il volume della televisione perché a lui i western facevano schifo. E poi doveva riflettere.
Di fianco c’era uno specchio con sopra incollate vecchie foto. Occupava quasi tutta la parete e riusciva a specchiarcisi per intero, seduto alla scrivania mentre sbuffava le nuvole di fumo bianco. Si guardò un po’ negli occhi e finalmente si decise a parlare.
- Finalmente soli – aspirò a fondo.
- Già –
- Devo parlarti. E’ un po’ che non parliamo, ne abbiamo bisogno. –
- Hai ragione. Come va? Sei felice? –
- Felice? Forse, a momenti… come sempre d’altronde. –
- Cosa c’è che non va? –
- Non so, ho idea di aver sbagliato a interpretare la vita. –
- Cosa c’è da interpretare, nella vita. –
- Tutto. Ci svegliamo guardando l’orologio perché vogliamo sapere quanto tempo manca all’ora di andare a letto. Ci domandiamo qual è la percentuale di mattina che abbiamo buttato via, perché la giornata è tutto ciò che ci resta. Tu come la vivresti senza interpretarla, una cosa del genere? –
- In effetti non saprei. Non ci resta che il tempo, ma col tempo ci puoi fare cosa vuoi. –
- E’ già un’interpretazione. A parer mio ci è stato dato troppo tempo. Finiamo con il rimandare e con l’oziare. Di punto in bianco però, una sera, ti giri e rigiri nel letto perché sai che la tua campanella sta per suonare e tu sai bene che hai posticipato ancora una volta, prima di sdraiarti. E’ arrivata l’ora di uscire e tornare a casa, ma tu non hai ottenuto niente in più di quando sei entrato. -
- Ho visto gente passare la vita a letto. Quando arrivò la campanella ridevano come bimbi. –
- Solo perché erano stanchi di aspettare. Dovremmo avere meno tempo, essere costretti a tenere il culo sempre ben in alto. Bisogna svegliarsi la mattina e fregarsene dell’orologio, perché tanto hai tutto il tempo di cui hai bisogno per cercare. L’importante è sapere cosa cercare. -
- Tu sai cosa cercare? –
- Ogni tanto. –
L’indiano del film si era appena rivolto al cowboy chiamandolo “viso pallido”. Era quella la scena che ricordava bene, lo faceva morire dal ridere. Iniziarono a ridere di gusto entrambi. Facevano un gran casino ridendo e sembrava che avrebbero riso per sempre. Poi però la finirono.
Altro giro per l’accendino. Birra e sigaretta, sigaretta e birra.
- Avrei dovuto reclamarla, perché mi appartiene. Avevo capito cosa cercare e l’avevo trovato. Non può essere solo caso. Perché il caso dovrebbe sbatterti in faccia la risposta e poi portartela via? Non riesco a pensare che potrebbe farmi una cosa del genere.
Già. E’ stata colpa mia, il caso non c’entra niente. Ho continuato a rimandare. fino a che... ecco quella maledetta campanella.
- Parli di quella ragazza? -
- Non solo, parlo della mia vita. Della mia vita insieme a quella ragazza. Una vita qualsiasi che diventa la mia. Ho lasciato che il tempo a mia disposizione si prendesse la mia vita.
- Non prendertela con lui, hai detto tu stesso che la colpa è tua. -
- Hai ragione. Avrei solo bisogno di dormire, adesso. Dormire a lungo. -
Se solo sapessi dove la nascondeva…
- Il secondo cassetto, sotto la televisione. E’ da li che la prendeva la notte di capodanno. -
Si alzò a controllare. Era vero. Era li. La 9mm di suo padre, come nuova. Era la pistola che la sua famiglia si tramandava da secoli, di padre in figlio, come il cognome. Quando uscì da sua madre ebbe in premio un cognome e una pistola. Si era chiesto a lungo cosa volesse dire tramandarsi una pistola, e ora aveva una possibile risposta.
La poggiò sullo strato di vetro che copriva il piano della scrivania e alzò la testa verso la televisione:
“viso pallido”
-AHAHAHAHAHAHAHAHAH!- ridevano –AHAHAHAHAHAH!-
Mandò ancora una volta indietro il nastro e fece lavorare di nuovo l’accendino. Birra e sigaretta. Erano le ultime. Ultima birra e ultima sigaretta.
- Sei ubriaco. Dovresti lasciar perdere o almeno pensarci su per bene, da lucido. -
- Sono ubiaco e non ci penso. E’ per questo che tutto filerà liscio, invece. -
- Quella pistola uccise tuo padre. -
- Mi sembra giusto. -
Finì quel che restava della birra con un sorso e spense l’ultima sigaretta.
La sua campanella aveva suonato, e lui stava per tornare a casa. Niente di più, niente di meno di quando era entrato.
- A presto, caro mio. -
La canna d’acciaio gli graffiò il palato. Fu un attimo.
“viso pallido”
Questa volta, però, non rise nessuno.
venerdì 28 novembre 2008
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Mi aggiro per casa già da un pò, facendo finta di dover scegliere questa o quella felpa, in realtà tra poco mi trascinerò la porta d'entrata dietro le spalle e non avrò idea di cosa avrò addosso.
Un sorso d'acqua e mi chiudo nel bagno. L'acqua del rubinetto è gelida e la faccia mi si paralizza per qualche secondo. La tazza del water non è esattamente pulita, ma non ho voglia di fare lo schizzinoso.
Ci metto poco a prepararmi, dopodichè corro fuori.
Nell'esatto momento in cui mi ritrovo all'esterno, la compana della chiesa che qualche stronzo aveva costruito proprio davanti a casa mia inizia a suonare le 12:45. L'ora con più rintocchi. Impreco varie volte ma riesco comunque a raggiungere la fermata dell'autobus in fondo alla stada.
Dal primo secondo che passo a bordo del bus mi concentro inspiegabilmente sulle palpebre dei miei compagni di viaggio. Ho ritenuto fantastico che riuscissero a battere le ciglia così velocemente senza neanche farci caso. Ho anche ritenuto che io non sarei mai riuscito a farlo bene come la quindicenne bionda che stava qualche posto più indietro di me.
Faccio comunque del mio meglio...
Arriva la mia fermata e scendo portandomi dietro i miei 90 chili di testa.
L'autobus mi ha lasciato esattamente davanti alle due porte automatiche del mio market preferito. Era bello perchè era piccolo. e spesso anche vuoto. potevo comprare le mie due cose e uscirmene ancora vivo in pochi minuti.
Vado dritto al banco frigo e ritiro due uova già fredde e una bottiglia d'acqua per mandarle giu.
Come previsto in 10 minuti sono di nuovo fuori, con la mia busta di plastica. durante il tragitto di ritorno non noto niente di particolare, posso solo starmene buono a guardare la gente di fuori lottare per il loro pezzo di marciapiede e aspettare che la corsa finisca.
Non ho ne tempo ne voglia di cuocermi le uova, la bottiglia sul tavolo sta aspettando che le dia retta. le manderò giù così come sono, tanto è uguale.
ci sono delle cose che hanno una certa priorità e delle cose che non cel'hanno. il cellulare e la bottiglia in questo momento meritano la massima attenzione.
Mi conviene sedermi vicino alla finestra socchiusa della cucina, l'aria non può farmi che bene. mi sistemo il cellulare ben carico vicino al bicchiere sul tavolo, così faccio presto a rispondere.
Mi era sempre stato antipatico, il cellulare intendo, ma da un pò di tempo gli faccio la corte. cerco di convincerlo che in fin dei conti gli voglio bene, purchè mi dia quello che aspetto. un pò come feci con quella mia compagna odiosa delle medie, che in terza diventò inspiegabilmente bella. Cerco di corteggiarlo ma fingendo di non dargli troppa attenzione, non vorrei che si montasse la testa e decidesse di mettemi alla prova facendomi aspettare.
Quando verso l'ultimo bicchiede dell'ultima bottiglia faccio due conti in fretta. semplicemente non si era mai acceso. il piccolo display era rimasto buio. aveva fatto sembrare buio anche il mio ultimo bicchiere, prepotente come non mai.
Mentre tiro via il tappo dalla seconda bottiglia vedo un vecchietto di fuori affannarsi per cercare una sistemazione comoda su una panchina su cui non c'era seduto nessun'altro.
Sorrido un attimo, mi chiedo cosa cerchi di ottenere continuando a spostare quel suo culone avanti e indietro. Finalmente trova pace, ed io smetto di ridere perchè quello che fa (o meglio che NON fa) mi irrita non poco. non tira fuori il cellulare. non controlla il suo piccolo display neanche per un attimo. zero.
divento del colore del mio vino ed inizio a sudare. sono decisamente più capace di lui a trovare una sistemazione su una panchina, ma lui non aspetta nessuna risposta. per lo meno non da un cellulare.
Lo mando a quel paese e decido di spostarmi da quella sedia.
Erano passate quasi 5 ore da quando mi ero seduto. avevo bisogno di coricarmi.
Prendo in una mano la bottiglia semivuota e nell'altra bicchiere e telefono.
Accendo la candela sul comodino e mi spoglio per infilarmi sotto le lenzuola.
Inizio a pensare. stare sdraiato di sera, quando è ancora presto, mi fa venire voglia di pensare.
Penso che sono stato una giornata intera affacciato alla finestra guardando il cielo scurirsi, bevendo vino e aspettando un segno di vita da un telefono.
Penso al vecchio, al mio unico amico.
Penso che domani dovrei fare qualcosa di diverso, penso che dovrei smettere di fare la corte a quel coso.
A proposito, devo caricarlo o domani non si accenderà.
Penso che riconoscere di essere dei vigliacchi ti possa semplificare la vita.
Mentre mi si chiudono gli occhi penso alla quindicenne dell'autobus, così brava con le sue ciglia. Scommetto che quella quindicenne non riuscirebbe a bere quanto me. ne sono certo. neanche se facesse del suo meglio.
giovedì 27 novembre 2008
F.
F. era un bravo ragazzo. Forse troppo bravo. Parlava poco, troppo poco. Faceva fatica a farti capire cosa gli piace fare.
Ci uscii insieme per qualche mese, di mattina. Andavamo a fare delle lunghe passeggiate in centro o lungo il mare, quando ancora il tempo era bello.
Cercavo di farlo divertire, di fagli venire voglia di uscire. Non che ci fosse troppo da impegnarsi, bastava promettergli un gelato e una passeggiata, e lui sembrava aver ricevuto il regalo che aspettava da sempre.
A F. piaceva fare le cose. Non importava cosa. Qualsiasi cosa gli proponessi, lui accettava. Mi misi in testa di insegnargli a giocare a bowling e l'idea di lanciare un oggetto molto pesante contro qualcosa parve piacergli molto. ogni mattina decideva di andare a giocare a bowling, a costo di pagare anche la mia partita. col tempo diventò piuttosto bravo.
Sentii che con me iniziava a liberarsi. Iniziava a parlare più di frequente ed a prendere l'iniziativa di raccontarmi delle cose.
Mi raccontò ad esempio che prima di me aveva avuto un altro amico, ma che non gli era piaciuto troppo uscirci perchè era una persona malvagia. continuava a ripetere questa parola. malvagia. non gli dava retta e un bel giorno sparì dalla circolazione. Ci teneva particolarmente a fare una netta distinzione tra le persone "malvage" e quelle "buone". tifava per i buoni e diceva che mai e poi mai sarebbe passato dalla parte dei malvagi.
Un giorno F. fece tardi e io dovetti salire in casa ad aspettare che si fosse preparato e così conobbi sua madre. Era il periodo di pasqua.
La casa aveva un odore dolciastro non troppo piacevole. C'era in giro il disordine della mattina.
Nel frattempo la madre di F. continuava ad andare avanti e indietro nervosamente e a blaterare cose a cui noi due non badavamo. continuava petulante a far fretta a F. alzando di una tacca la voce di volta in volta. iniziava a irritare pesantemente anche me.
Mentre F. finiva di prepararsi e tra un "F. fai veloce, dai!" e l'altro, la donna mi fece diverse domande sul mio credo religioso sfogliando una grossa bibbia, in un modo che mi mise ansia. Dovetti inventare un sacco di frottole per venirne fuori. Quando F. si presentò pronto per uscire ero sull'orlo di una crisi di nervi. Gli ultimi minuti prima di varcare la soglia di casa, durante i quali la grossa e isterica mamma imbottì esageratamente d'indumenti il figlio succube, mi sembrarono non finire mai.
Finalmente fuori!
Qualche giorno dopo avremmo dovuto incontrarci di nuovo. Andai a prenderlo a casa, come al solito. suonai il citofono, ma invece che aprirsi il portone risposte la sorella di F.
"Si?"
"Ehm... F. è pronto? Dovevamo uscire..."
"E' già uscito. Diceva che ti avrebbe aspettato in piazza. L'ha accompagnato lì mia madre"
Riscesi verso la piazza, sperando di trovarlo ancora li.
Invece non c'era.
Aspettai lì 15 minuti, cercando di stare bene in vista e provando a guardare in tutte le direzioni nello stesso momento, per cercare di vederlo.
Passarono altri 15 minuti, ma non ci fu verso di scorgerlo.
Chiamai la madre sul cellulare, disse che non ne sapeva niente ma di stare tranquillo e aspettarlo, che sarebbe arrivato.
Aspettai altri 15 minuti, ma quando vidi che non arrivava iniziai a correre verso i posti in cui andavamo di solito.
La pasticceria, la sala da Bowling, il parco. Non c'era.
Tornai a casa sua, dove la sorella mi propose di andare con lei a cercarlo in macchina, ma anche con questo sistema niente da fare.
Tornai a casa più tardi del solito, cercando di convincermi che l'avrebbero ritrovato di lì a poco e che mi avrebbero chiamato. Non ne seppi più niente.
La mattina dopo andai a chiedere novità a casa sua, ma non mi rispose nessuno e dopo qualche tentativo fuoi costretto ad arrendermi e tornarmene a casa.
Non vidi ne sentii più F.
Poco tempo dopo, qualche giorno prima che lasciassi la città, venni a sapere da un collega che F. era tornato a casa nel tardo pomeriggio ed aveva iniziato a sbattere la grossa bibbia sul naso della madre. Quella provò di tutto, dall'urlare al pregarlo di smettere, ma lui non si fermò finchè non la vide svenire sul pavimento. Il padre, che tornava in quel momento, vide la moglie stesa sul pavimento della camera da letto, con il naso grondante di sangue e la faccia piena di lacrime secche e si chinò per soccorerla.
Lo trovarono seduto sui gradini della pasticceria, in pantaloncini e canottiera, che si lavorava un vassoio enorme di bignè e sorrideva, perchè era felice.
Certe vite iniziano con un colpo di pistola.
Solo su e giù.
Lo guardava come si guarda un quadro enorme in una galleria, senza dire niente.
Lui guardava a terra, pensando al da farsi.
Raccolse gli abiti da terra e si vestì in fretta.
-Dove vai?-
Si chiuse la porta dietro le spalle, si fiondò giù dalle scale. Sentì il portone di casa aprirsi e lei blaterare qualcosa, ma ormai era a un passo dal cortile.
Non aveva idea di dove stesse andando. Aveva solo voglia di scappare dall'odore di quella camera. Odore di sudore, liquidi corporei, bugie e occhi innamorati.
Prima di tutto aveva bisogno di un drink. E di una cabina telefonica.
Entrò in un bar reso vivo solo dal fumo delle sigarette di chi ci era stato, popolato da vecchietti e dai suoni elettronici del videopoker.
Ordinò un bicchiere di whisky e andò a fare la sua telefonata.
Niente da fare, spento.
Mandò giù e proseguì per il viale mal illuminato che portava al centro del paese.
Entrò in tutti i bar sulla strada, ordinando whisky e provando inutilmente a telefonare.
La falsa voce femminile che provava a convincerlo che il telefono che stava chiamando era spento si mescolava con il sapore dell'alcol e lo stava facendo impazzire. continuava a darsi pugni sulle cosce e i muscoli della mascella ormai gli facevano male. sentì gli occhi gonfiarsi, avrebbe voluto liberarsi, ma rimasero asciutti.
Provo l'ultima volta, giuro...
Nulla. Ancora la stronza dalla voce metallica. Gli avrebbe spaccato la faccia volentieri, a quella li.
Riprese la via al contrario, con la testa che esplodeva, cercando di pensare solo a mettere un piede davanti all'altro, scendendo e salendo dal marciapiede, rischiando di farsi mettere sotto.
Cosa vuoi che cambi?
Suonò al citofono,
il cancello si aprì.
Fece le scale lentamente e a testa bassa, entrò in casa e le diede un bacio per farla stare zitta.
-Dove cazzo sei stato? Puzzi d'alcol.-
-Da nessuna parte-, ed era vero.
Dovette portarla in camera e spogliarla e impregnarla nuovamente della sua puzza di falso.
Stavano per fare di nuovo l'amore, o almeno questo è quello che pensava lei.
mercoledì 26 novembre 2008
martedì 25 novembre 2008
Lips doing miracles.
Non gente sporca, solo non cosparsa di liquidi costosi e odorosi.
Gente che lavora 10 ore di sabato e 8 ore durante la settimana, che al massimo può permettersi qualche boccale di birra di troppo per poter dimenticare che oggi è venerdì.
Ad ogni modo il pub è pieno.
Su uno sgabello di legno completamente inciso con scritte poco importanti è seduto S.
Se ne sta li da solo a dimenticarsi che oggi è venerdì, bevendo la sua pinta di birra che gli fa venire voglia di fumare.
Se non la smetto finirò il pacchetto. Non devo finire il pacchetto.
Accende una Marlboro e scola l'ultimo goccio di birra, ne ordina un'altra e mentre il barista la spilla lui si dirige verso il cesso.
Durante il tragitto si rende conto di barcollare leggermente, di avere la bocca amara e completamente rattrappita dalle numerose sigarette che si è fumato.
Quante ne ho fatte fuori? Dieci? Quindici? Quante birre? Quattro o cinque. Non di più.
Apre la porta che dà sullo stretto corridoio con i lavandini e si posiziona davanti alla porta chiusa del bagno degli uomini.
Passano pochi secondi, giusto il tempo di calpestare la cicca della sigaretta, quando una ragazza esce dal bagno di fianco a lui.
S. muore. O meglio, prova cosa si prova a morire.
Dimenticò di far battere il cuore per qualche secondo e quello per recuperare iniziò a correre come un maledetto pazzo.
La ragazza si massaggiava le mani sotto il getto d'acqua fredda mentre S. cercava di muoversi da quella posizione ridicola in cui era rimasto.
Dove le metto? DOVE CAZZO LE METTO? Le metto in tasca. Nella tasca della giacca. Mi serve una sigaretta.
Si cacciò una sigaretta in bocca e si mise le mani in tasca, come aveva premeditato, e si avvicinò al lavabo per lavarsi le mani senza neanche aver pisciato.
Ormai avrebbe potuto disegnarla, quella ragazza. Sel'era stampata bene in testa, in pochi secondi.
Era piuttosto bassa, almeno in confronto a lui che era alto più di un mentro e ottantacinque, aveva i capelli castano chiari mossi, gli occhi marroni e un naso leggermente storto, perfetto. La bocca era di quelle con cui ci puoi fare qualsiasi cosa. Di quelle con cui i sorrisi hanno un altro sapore. Di quelle che non fanno che abbellirsi con il tempo, con le fossette che si marcano sempre di più ai lati delle labbra.
Mentre guardava il rubinetto scorrere si rese conto che la ragazza si era fermata a parlare al cellulare dentro il bagno.
S. continuò per un pò a dipingersela in testa, fissando il getto d'acqua e muovendo inutilmente le dita. Alzò lo sguardo verso lo specchio e si guardò negli occhi... come se dovesse mettersi soggezione da solo. ottenne solo un gran senso di frustrazione. ogni particolare sulla sua faccia gli diceva che la ragazza al cellulare non faceva parte della sua vita. che era nato per mirare più in basso, che avrebbe dovuto accontentarsi. Si mise una mano in faccia e si strinse le guance. guardò la mano. si ricordò del disagio che aveva provato poco prima perchè non sapeva dove metterla. Si rese conto di non essere normale, di non avere nessuna possibilità con una ragazza come quella.
Decise cosa doveva fare.
Srotolò della carta asciugamani. Ne srotolò molta. Se ne riempì una mano. S. aveva una mano piena di carta asciugamani.
S. e la sua mano di carta si avvicinarono lentamente verso la schiena (coperta da una giacca che addosso a chiunque altro avrebbe fatto ridere) della ragazza.
La mano e la carta oltrepassarono la schiena e la giacca e tapparono la bocca di quella creatura unica al mondo.
La ragazza iniziò ad agitarsi. Si agitava troppo per i gusti di S. che stava riflettendo sul fatto che la sua mano, quella mano ora piena di carta che prima aveva cercato di nascondere nella tasca dei jeans, stesse toccando quelle labbra capaci di qualsiasi cosa.
La ragazza si stancò presto e mise giù le braccia, le stese lungo i fianchi ma iniziò a bagnare la carta asciugamani di lacrime.
Cristo scusami. Sono un mostro. Un maledetto mostro.
Perchè ti sto facendo questo? Perchè tu mi hai fatto quello che hai voluto, ecco perchè.
Sei entrata nel mio cervello attraverso gli occhi. Hai fermato il mio cuore. Hai ogni briciola d'umanità. Mi hai urlato dentro al cuore. Ci hai urlato che non avrò mai sulle labbra una bocca come la tua. Una bocca che guarisce e fa ammalare.
Non avevi il diritto di trattarmi così. Non avevi il diritto di nascere così lontano dalla mia vita.
Mentre, in silenzio, pensava tutto questo la ragazza, che ormai aveva finito forze e lacrime, diventò di colpo troppo pesante e si accasciò contro di lui.
La guardò posarsi lentamente sul pavimento, scivolando sui suoi jeans. Le levò la carta fradicia dalla faccia e si accorse che il trucco le aveva fatto delle lunghe righe come lacrime sotto gli occhi.
La guardò bene per qualche secondo stesa lì per terra tutta macchiata di trucco, con la faccia esausta e umida e la bocca contratta in una smorfia che non aveva più nessuna traccia del potere di prima.
La sistemò seduta contro il muro di piastrelle bianche ed uscì dal bagno.
Intravide la sua birra nuova ormai senza schiuma sul bancone e il suo sgabello ancora libero.
-Fanculo- sussurrò. Poi si sedette, abbracciò il bicchiere e gli diede un bacio che non avrebbe mai dimenticato.
martedì 1 gennaio 2008
Introducing the dancing drunk satan-
Supponiamo di viverne lontano. Di essere davvero convinti di poter restare senza rapporti.
Supponiamo di continuare a berla.
Avremmo già perso la partita.
Il vecchietto sulla panchina d'acciaio freddo del parco ha finito di masticare l'ultimo boccone del suo panino al prosciutto e ne appallottola la carta.