venerdì 6 novembre 2009

(s)CRAP

Da un sacco di tempo non riesco a scrivere più di un paio di righe una dietro l'altra, non importa di che umore sia.
Qualche giorno fa avevo deciso di scrivere di una donna molto brutta o molto povera che, una sera (complice una sbronza considerevole) si innamora di un frutto, o magari di un ortaggio.
Che ne so... una zucca.
E poi questa zucca marcisce, ma lei è troppo innamorata per accorgersene, così continua ad amarlo e sui occhi fissano la zucca in putrefazione ma vedono una bella zucca, grossa, lucente.
La zucca più bella di tutti gli orti del pianeta era li davanti ai suoi occhi, putrefatta, e lei l'amava con tutta se stessa.
Questo amore doveva durare un pò, prima di far finire la donna brutta e povera ma felice per aver trovato finalmente l'amore della sua vita, morta sulla poltiglia del suo marito vegetale putrefatto.

Giuro che in questi giorni ho anche riflettuto sul come impostare il racconto, sul tipo di donna che doveva essere e sul vegetale da utilizzare. Eppure non riuscivo a renderlo abbastanza trash, abbastanza rivoltante e stupido, apparentemente privo di significato, REALMENTE privo di significato. Piatto e brutto. Disgusto e rassegnazione. Puzza di marciume e tempo perso. Non ci riuscivo.
Allora basta. Da idea è diventato abozzo, da abbozzo racconto (sempre nella mia testa) e da racconto è tornato abbozzo, questa volta per restarci.

Ora ho di nuovo tempo per pensare alla mia vita che da vuota diventa insensata e resta così.
Ho paura di star vivendo una vita per la quale non morirei, ma forse chiedo troppo. C'è gente che la vita non cel'ha neppure.

martedì 20 ottobre 2009

I need some sadness, to escape from madness.

lunedì 19 ottobre 2009

Bliss

Oggi ho scoperto che non ho mai buone idee, illuminazioni o colpi di genio. Mai, giuro.
Ho un modo insolito di piangere.
Questo è tutto ciò che ho.

Rettifica.

Mamma, è una forma di depressione.

lunedì 1 giugno 2009

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No, mamma, non è nessuna forma di depressione, è solo che pensavo che avere 22 anni sarebbe stato molto meglio di come non sia in realtà.
A 16 anni, quando le cose andavano male, mi dicevo che il me stesso di 22 anni sarebbe stato una persona fantastica, grazie anche alla merda che il me stesso di 16 aveva ingoiato.
A 18 anni, quando le cose andavano ancora peggio, mi dicevo che il me stesso di 22 anni avrebbe vissuto la vita nel migliore dei modi, a nome di tutti gli altri me stessi.

Ora, a 22 anni, le cose non sono affatto migliorate e, peggio ancora, ho poca fiducia nel me stesso di 32 anni.
Ho il presentimento che quest'altro me stesso, seduto in mutande al tavolo della cucina, con una tazza di caffè e una sigaretta tra due dita, non sentirà che l'oppressione dell'impotenza e il peso del fallimento di tutti gli altri me stesso, che non hanno saputo fare altro che aspettare e sperare che di certe faccende se ne occupassero il tempo ed i più grandi. E credo di sapere anche che, versando due dita di liquore nel caffè, sceglierà di dare la colpa agli altri, troppo immaturi e pigri, per evitare di pensarci su troppo.

Hai ragione, mamma, la cosa più brutta è questa mia consapevolezza e l'apatia con cui mi ci rapporto. Eppure è così da sempre.
Non riesco a capire come fare, cosa manca per farmi funzionare.
E' come se non serva altro che l'idea giusta. Un bagliore accecante in una delle notti passate aspettando la mattina per poter dormire, che riveli la soluzione.
Eppure non accade mai. E' un continuo girarci intorno, sentirsi vicini e poi dimenticarsene.

Esatto, anche il me stesso di 16 anni la vedeva così, e quello di 18 pensava le stesse cose.
Il risultato? Non ho mosso un passo.
Cosa vuoi che ti dica?
Aspetterò.
Ho deciso che mi metterò comodo e aspetterò.

Ora buonanotte, mamma. Devo andare a dormire.
Sono troppo stanco di aspettare. E' il turno del me stesso di domani.

Buonanotte.

mercoledì 25 marzo 2009

Weak and Powerless

E' una questione di essere dipendenti da qualcuno o da qualcosa.
Ho bisogno di essere dipendende da qualcuno o da qualcosa, o finisco per perdermi, e già da troppo tempo la mia dipendenza sei tu.
Come fossi droga, come fossi eroina, entri nelle vene e non ti stacchi più.
Fluisci veloce, corri col sangue fino al cuore e in pochi secondi sei in tutto il mio corpo.
Pronta per restare. Venuta per restare.
La mente il contagocce, ogni parola la staffa che va giù di qualche tacca.
Non lasci segni sulla pelle, non lasci buchi nelle vene. Vai via e porti via tutto.
Il sorriso, l'idea, la voglia, la fame, il sonno. Tutto.
E il cuore brama. Batte e brama. Batte lento e aspetta la prossima dose, la prossima occasione per sentirsi più vivo. Vivo.
Ma poi è pura crisi d'astinenza. Delirium tremens.
Peggio della fame e peggio della sete. Peggio di qualunque altra cosa.
Non ci sei più e il cuore non batte. Gli occhi non si aprono. Le lenzuola non lasciano che mi tiri su.
Raccolgo i cocci e le tracce dell'ultima dose, provo a leccarle a fondo, finchè non scompaiono del tutto, ma non basta. Non basta affatto.
Ho bisogno di una vera dose di te e barcollo per le strade, sudo nel letto e vomito saliva.


Con il cervello putrefatto dall'astinenza mi cerco qualcos'altro da cui dipendere.
Rimpiazzo temporaneamente, mi do tempo.
Giorno e notte.
Notte e di nuovo giorno. Dipendo da qualcos'altro.

Ed eccomi disintossicato.
Ora sto meglio. Sono una persona normale, sono come tutti gli altri.
Parlo con le altre persone senza biascicare stronzate o annuire senza ascoltare.
Riesco a divertirmi.

E contento guardo il tramonto.
Luminoso e immenso. Mortale più di me. E dentro ci sei tu.
Ne assumo l'essenza tramite gli occhi e mi riempe le vene come facevi tu.
Mi strizza il cuore e ci soffia dentro il suo fluido, come facevi tu.
Mi si asciuga la gola, sparisce il respiro, sudano le mani.
Ora sei di nuovo qui, sono di nuovo tuo, debole e senza potere.


Finchè il buio non ti inghiottirà ancora una volta sono di nuovo io.

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Questa volta è stato il treno con gli occhi socchiusi delle ragazze, spalmati sui poggiatesta dei suoi sedili, a ricordarmi che ancora non è cambiato niente.
Aveva già raccolto una buona parte della gente stanca sulla tratta Bologna-Ferrara, prima ancora che riuscissi a vederlo, e stava cuocendo per bene le loro facce, con l'aria calda del riscaldamento. Feci scivolare il cappotto dalle braccia fino ad un sedile vuoto e mi stesi su quello di fianco, vicino al finestrino.
Nonostante il caldo appoggiai la fronte al vetro e chiusi gli occhi, lasciando che il sole mi riempisse la testa di bianco.
Pochi secondi dopo dormivo e la ragazza uscì dall'appartamento.
Lasciò aperta la porta, tirandosela dietro senza cura, e sparì senza guardarmi, forse non mi aveva visto, forse semplicemente non c'ero.
L'appartamento era in realtà un monolocale. Riuscivo a vederlo attraverso la porta aperta. Non si riusciva a distinguere altro, però. Era come inondato di luce bianca, era come guardare il sole ad occhi nudi.
Entrai e mi chiusi dentro.
Ora la luce era sparita e la stanza era completamente vuota, a parte un lenzuolo grigio e perfettamente steso sul pavimento, sul quale stava sdraiata la ragazza che era appena uscita, completamente nuda, fantastica.
Era come se la luce di qualche attimo prima provenisse da lei, e ora le stesse nascosta nel petto, all'altezza del seno, facendole brillare la pelle come fosse fatta di giada.
Non la conoscevo, ma mi parlava come se fossimo fratelli. Lo intuivo dal tono che usava, perchè di quello che diceva non riuscivo a capire niente. E continuava a strofinarsi sul suo lenzuolo, come se stesse cercando la posizione giusta.
Mi avvicinai a passi minuscoli, insignificanti. Quasi non mi muovevo.
Ero come in stato si shock. Gli occhi mi bruciavano e più avanzavo e più la luce nascosta dalla pelle di giada faceva come per venire fuori.
Arrivai a un passo da lei. Continuava a chiamarmi per nome. Continuava a parlarmi e a questo punto fui nudo anche io.
Mi sdraiai lentamente sopra di lei, impaziente di carezzarle i fianchi, di succhiarle la luce dalle labbra, di splendere un pò anche io.
Iniziammo a baciarci e fare l'amore, lentamente. Avrei voluto che durasse tutta la vita, che non finisse mai. Avrei invocato la morte nell'instante in cui la mia pelle si sarebbe staccata dalla sua. E nello stesso modo in cui il mio cuore aumentava di ritmo, i suoi occhi si schiarivano e mi abbagliavano.
Arrivò l'orgasmo. Per entrambi. Gigantesco. Infinito. Sentii il cuore scoppiarmi nel petto, i suoi occhi diventare pura luce e cancellarmi la faccia.
La stanza era nuovamente una fetta di sole. Non la vedevo più. Non la sentivo più.
Solo luce.

Lentamente tirai su la testa.
La cornice di alluminio del finestrino uscì fuori dal bagliore e pian piano si disegnò fredda e lercia com'era. L'odore di fumo vecchio di anni, penetrato in profondità nel mio sedile, mi aveva riempito il naso e gli occhi socchiusi e stanchi delle ragazze erano ancora li, a ricordarmi che ancora non è cambiato niente.

sabato 31 gennaio 2009

Lei: "Sono sempre di più le persone che riflettendo sui rapporti tra uomo e donna arrivano alla conclusione che sia puro accoppiamento. Istinto animale.
Che l'amore e la gelosia, il partner unico, l'esclusiva sulla nudità altrui, il possesso delle persone, tradimento e adulterio, sono cose che ci siamo inventati per chissà quale motivo.
Per renderci le cose difficili, mi è stato detto.
Io non ci credo. Non posso crederci.
Nessuno può credere che non esista l'amore, che non esista dio. Abbiamo bisogno di entrambe le cose, per lo meno per darci un senso, per non sentirci di passaggio.
Tu che ne pensi?"

Lui: "Che se non ti fotto finisco svenuto"

domenica 25 gennaio 2009

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La prima volta che entrai nel reparto rianimazione di un ospedale il mio cuore sembrava aver capito tutto. Credo pensasse di approfittare dell'occasione e collassare in quel momento, già che c'era.
Inondava le vene di globuli bianchi e rossi, di piastrine. mi stava affogando nella sua sbobba porpora. La testa pesava qualche chilo di troppo, il cervello zuppo di sangue aveva rubato il fluido ai miei piedi. alle mie gambe. al mio uccello.


Il Cervello.
La poltiglia molliccia. la centrale elettrica. la hall. il corso affollato. gli interruttori. on/off. click/clack.
Tutto in una scatola d'osso.


(Sono sempre stato convinto che ci sia qualche problema di comunicazione, tra me e il mio cervello. che non riusciamo a intenderci per bene.
io gli do del dispettoso.
lui mi da dell'incapace.
eppure si è costretti a far la pace, quando si vive l'uno nell'altro. e lui non ha neanche il mignolino da far dondolare.)

E così la prima volta che entrai nel reparto rianimazione di un ospedale il mio cuore pompava robaccia al cervello dispettoso, che gonfio mi lasciava solo e inebetito.
Incastravo un piede davanti all'altro, strisciando una gamba del jeans contro l'altra a tempo.
frush, frush. un, due. rinse and repeat.
Uno zombie semi-irrigato. uno zombie semi-irrigato con le mani tremolanti. Ero terrorizzato.
Mia zia aspettava che entrassi nella stanza insonorizzata e sterile, con vetri doppi e macchinari bippeggianti. stesa sul lettino, sveglia ed incapace a muoversi.
Doveva averci litigato di brutto, col suo cervello. Quello doveva averla mandata a quel paese definitivamente. Anzi, peggio, doveva averle dimostrato quanto poteva essere infimo, lasciandola cosciente ma disabilitata.
Cattiveria, rimorso, perdono, movimenti. Eppure sono tutte cose che stanno dentro al cervello.
Mi ponevo la domanda.
Intanto, però, badavo a perdere tempo, a fare passi piccoli, a non sorpassare troppo in fretta la soglia di quella stanza.
La verità è che non sapevo cosa dire.
Il silenzio. Ecco cosa mi terrorizzava.

Il punto è che quando nasci erediti immediatamente qualcosa. I parenti.
Tu non scegli loro, loro non scelgono te. Così finisce che per anni vivi come se non li avessi.
Per anni il natale e i parenti sono due cose comunque indipendenti. Per te non hanno collegamento, punto e basta.
Un giorno, però, il cervello di qualcuno fa lo stronzo e così ti ritrovi a indossare un camice verde, mentre scorri in fretta i possibili argomenti e ti cachi in mano perchè la bocca potrebbe restarti immobile.
Funziona così, c'è poco da fare. Ogni giorno soquanti cervelli decidono di non fare più il loro lavoro, di trasformarsi in pappetta inutile, ma a te non te ne frega niente. Continui ad annoiarti, a sonnecchiare, a masturbarti allegramente.
Il ventiqualcosa dicembre del duemilaqualcosa, invece tocca al grigiume di un parente, comunque indipendente dal tuo alberello luccicante di palline catarinfrangenti, ma non riesci a fregartene. Vorresti ma non puoi. E' qualcosa di subdolo e nascosto, come le cisti appena nate. un dispiacere velato, mai provato, tutto nuovo, orrendo.


La Confusione.
La luce artificiale. il fragore dei piatti unti nel secchiaio. la locomotiva. sabato in centro. la quinta classe, sezione D.
Tutta tua. Incondivisibile.


Prima o poi, però, tutti i pavimenti finiscono. anche quello del corridoio del reparto rianimazione dell'ospedale in cui entravo per la prima volta.
Lei respirava e parlava dentro una mascherina con dei fori dotata di tubo. Svariati fili le contavano i bum del cuore. qualche pinzetta qua e là tranquillizzava le macchine. tutto andava bene, per ora. ogni pezzettino immobile del corpo di mia zia era ben ossigenato.
Le mie mani vibrarono fino alla sponda gelida del letto, poi lentamente una si spostò verso la sua spalla e lì si afflosciò.
cercare contatto. più o meno di questo non riesco a fare.
Vorrei metterla in piedi e vederla camminare, vederla stupirsi, certo. come no. ovvio che vorrei.
Ma contatto. contatto la sua spalla attraverso il pigiama fino di cotone e lascio che i vetri spessi della stanza uccidano la mia voce, finalmente uscita dalla mia bocca secca.

Bla bla bla morti spalmati sui vetri.
Non ricordo cosa dissi. Ricordo qualcosa di ciò che disse lei, col tono profetico di chi sta per morire e non vuole pensare a se stesso.
Ricordo benissimo le quattro dita che mi si riscaldavano contro la sua spalla, che sputavano elettricità, che irradiavano tensione, che facevano tutto il lavoro.

La prima volta che entrai nel reparto rianimazione di un ospedale ci fu il terrore, e poi il calore.


Il Dispiacere.
Le partenze in treno. la famiglia. gli amici. il sesso. la musica. l'ultima pagina. i titoli di coda. il cane ammalato. ciò che non hai avuto. ciò che non avrai mai.
L'aria che ancora respiri.
Diamo il bianco alle pareti, quando ci si fanno le macchie.
Raschiamo via le incrostazioni dal pavimento, lucidiamo i vetri, nutriamo i legni pregiati.
Sappiamo badare alle nostre mensole, che non siano storte, troppo in qua o troppo in la. troppo su o troppo giù.
Sappiamo fare un sacco di cose. Sappiamo darci delle arie. Sappiamo costruirci attorno una tana come i castori.

Non sappiamo fare un cazzo.

venerdì 9 gennaio 2009

Un giorno o l'altro sai che cosa ti faccio? 
Dal nulla sferico che da me ti aspetti 
io balzerò e in un oplà ti stregherò l'anima.
(M.K.)